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Tre mesi fa, mentre ero in Birmania, la leader della dissidenza birmana Aung San Suu Kyi si trovava in Europa ad incontrare le autorità politiche europee. Questo è il post che ho scritto per www.cosebellemagazine.it:

Attaccata con lo scotch alle pareti, appesa con uno spago al lampadario, in vendita nei mercati, appiccicata al carretto dei venditori ambulanti, incorniciata sui muri nelle case e nelle capanne, l’immagine di Aung San Suu Kyi è esposta con orgoglio in ogni angolo della Birmania. 
Mi sento spettatrice di un importante momento storico: la Birmania è in gran fermento democratico e mentre sono davanti al cancello della casa di Aung San Suu Kyi, lei è in Europa (con diverse tappe anche in Italia) ad incontrare le più importanti autorità politiche e religiose del continente. Penso alla sua vita, agli ideali e alla determinazione di questa donna che da anni lotta per la democrazia e i diritti umani del popolo birmano, oppresso da una rigida dittatura militare dal 1962. 
 
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La chiamano l’“orchidea d’acciaio” per il fiore bianco che mette sempre tra i capelli, segno di eleganza e femminilità, e per la fermezza e l’ostinazione che la caratterizzano. La vita di questa donna straordinaria, che pare uscire da un romanzo, è arrivata nelle sale cinematografiche grazie al film The Lady di Luc Besson, che mostra Aung San Suu Kyi in un’ottica “umana” e poco politica, concentrandosi sulla vita privata, gli affetti e il rapporto col marito. Per il suo popolo ha rinunciato alla propria libertà personale e agli affetti familiari, è stata agli arresti domiciliari dal 1989 al 2010 e anche quando ne aveva la possibilità non è mai uscita dal paese, anche quando è rimasta vedova, perché la giunta militare non le avrebbe mai permesso di rientrare. Nel 1991 ha vinto il Premio Nobel per la Pace, che ha potuto ritirare soltanto lo scorso anno. 
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La famiglia di Aung San Suu Kyi è sempre stata al centro delle vicende politiche del paese: il padre fu un eroe nazionale che lottò per l’indipendenza dall’Inghilterra, ottenuta nel 1947; la madre fu un importante esponente della politica birmana, tanto da diventare ambasciatrice in India nel 1960. Aung San Suu Kyi aveva scelto invece un altro tipo di vita: dopo la laurea negli Stati Uniti si sposò con Michael Aris, studioso di cultura tibetana, da cui ebbe due figli. Vivevano una vita felice e agiata quando nel 1988 Aung San Suu Kyi tornò in Birmania per assistere la madre morente, da quel momento la sua vita cambiò radicalmente. Il 1988 fu l’anno delle rivolte studentesche, represse brutalmente dal regime, e di fronte al dolore del popolo birmano Aung San Suu Kyi decise di rimanere in Birmania fondando la National League for Democracy. Venne arrestata l’anno dopo e la storia che ne seguì la portò a diventare la leader della dissidenza birmana e simbolo mondiale della non violenza e della lotta per la democrazia. Venne liberata definitivamente nel 2010. 
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Alle elezioni del 2012 il suo partito ha vinto gran parte dei seggi disponibili (la maggior parte rimane appannaggio dei militari) e il governo ha dato inizio ad una serie di riforme: è stato promosso il turismo, i bancomat internazionali – inesistenti fino a marzo 2013 – sono diffusi nelle località turistiche, è stata abolita la censura dei mezzi di informazione e sono stati liberati 73 prigionieri politici. Tuttavia lo scopo di queste riforme non è dettato da reali sentimenti democratici: l’obiettivo è addolcire i rapporti con l’occidente per interessi economici. Nonostante l’apparenza il governo birmano è ancora composto dagli stessi generali del regime militare.

La strada verso la democrazia è ancora lunga, ma per la prima volta dopo molti anni di dittatura Aung San Suu Kyi è libera di parlare in pubblico di pace e libertà. Il suo popolo e la comunità internazionale la sostengono, confidando che la sua tenacia venga premiata alle prossime elezioni, previste nel 2015. Il Dalai Lama, in tempi più bui, le disse: “Non sei mai stata sola”.Oggi il pacifico esercito di sostenitori della Lady birmana è ancora più numeroso e convinto. 

“Non è il modo in cui obbediamo, ma quello in cui disobbediamo che dimostra quanto democratici siamo” Aung San Suu Kyi

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