
Le radici del sapore – Viaggio sul Monte Amiata
Le parole sono spesso le prime a perdere la loro radice. L’aggettivo “povero”, ad esempio, deriva dal latino “pau-per”: piccolo di risorse, poco fertile. Un termine strettamente legato alla terra che oggi etichetta proprio quelle persone che della terra vivono. Succede tra i castagni di Abbadia San Salvatore, una cittadina alle pendici del Monte Amiata nella provincia di Siena.
“Prova a proporre la polenta di castagne a chi vive qui e te la tira indietro, gli ricorda i tempi in cui non si mangiava altro!”, spiega Grazia di Terre di Siena che ha promosso un tour di tre giorni a giornalisti e blogger per esplorare i lineamenti duri della sinuosa Val D’Orcia.
Le pettinate onde dell’area patrimonio Unesco s’infrangono contro i 1700 metri del Monte Amiata. Una leggenda locale vuole che Dante Alighieri si sia ispirato a questo massiccio montuoso per descrivere il Purgatorio. Pare che le rocce modellate dalle remote attività vulcaniche abbiano ricambiato scolpendo il profilo del poeta lungo uno dei tornanti che conducono alla vetta.
“Tu immagina questa strada con la neve e con il ghiaccio. Fino al 1975 raggiungere le piste da sci era un’impresa impossibile!” sostiene Luigi, l’altro accompagnatore della Provincia di Siena. Un isolamento dettato anche dall’attività mineraria che in quegli anni ancora imperava ad Abbadia San Salvatore. Qual è la radice dell’argento vivo? Le pietre rosse di cinabro da cui si estrae e si lavora il mercurio, scoperto da un rabdomante del luogo sul finire dell’Ottocento e sfruttato prima dai tedeschi, infine dall’Eni. Un corno risuona tuttora tre volte nella cittadina, a segnalare il cambio dei turni. “La miniera crea dipendenza”, confessa Paolo. È sceso in galleria la prima volta a tredici anni, per questo ha preso il nome di ‘piccolo minatore’.
Oggi ha ottant’anni e fa la guida al museo minerario, dove è possibile prendere un trenino per inoltrarsi dentro gli scavi e sperimentare il silenzio e il buio assoluti da lui evocati più volte con le lacrime agli occhi. Anche Giorgio ha fatto il minatore, ma solo per tre anni. “Poi mi hanno messo ai macchinari dell’Istituto Tecnico e lì sono rimasto fino alla pensione, mentre montavo su l’albergo con mi moglie e le mie figliole”, racconta. Non è il solo ad aver aperto un’attività di ricezione turistica dopo la chiusura della miniera; in entrambi i settori, sono le mani a lavorare. È curiosa invece la scelta diffusa di puntare sugli ingredienti della propria tradizione nella ristorazione: le castagne, i funghi, i pici (pasta ottenuta dalla semplice combinazione di acqua e farina), l’olio, i biscotti all’anice usati al posto del pane, il maiale di cinta senese.
Alla Taverna del Pian delle Mura a fine pasto offrono un liquore ottenuto dalla macerazione dei petali di rosa canina, un’antica ricetta tramandata alla cuoca dalla propria nonna. Il locale nasce dall’idea di due bidelle di Vivo d’Orcia, paesino nascosto in un versante del Monte Amiata. In pochi anni è stato adottato da Slow Food e visitato da vari vip, ma i coperti sono rimasti una trentina per garantire la freschezza quotidiana dei prodotti ed evitare l’acquisto di un surgelatore.
La povertà di un tempo diventa chic, svelando i paradossi dell’etimologia italiana. La fertilità non è forse nella quantità delle risorse, ma nel loro sapore.
Guest post di Valentina Vivona, giornalista,
alice
il monte amiata , la frugaslità della terra e la sua ricchezza. sapevo si preparavano marmellate con la rosa canina ma liquore non l’avevo mai sentito:)