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Strade Marakesh

Rosso mattone. Color sabbia. Pesce, spezie e cuoio. Saponi profumati, essenze. Africa esotica.

I vicoli stretti giungono alla porta di legno borchiata, col batacchio. Attento alla testa.

E’ pieno di scale che son piene di mattonelle. Non c’è bisogno di allisciare le pareti colorate, splendide e frastagliate. Taxi color zabaione lavorano. Si usano i carretti a mano.

La sa lunga l’uomo che trasporta teste di pecora senza la pelle. Ci sgamano in un attimo, anche i più giovani, che siamo italiani, o al massimo portoghesi. Carne cotta alla piastra, il pollo giallo crudo è già speziato. Pesce. Te’ del deserto. Scimmie.

Strade Marakesh

Mi sento attratto da questa città. Rossa come l’arissa, spezia tipica che si può fare in casa. Rossa come le case in periferia forate da piccole finestre quadrangolari. Grate di metallo che sporgono come balconcini, creando ombre di davanzale, troppo in alto per il sole nebbioso, che di sera cede il palcoscenico ai fiumi saporiti di pesce fritto e pane.

Mi rendo conto che più vado fuori dal continente in cui vivo, più mi piace e ci voglio stare. In Europa è questo che mi mancava. Ora ciò di cui ho bisogno è  viaggiare in terre lontane. Mi accendo.

Un esercito di donne sfreccia sui motori a due ruote, guidando come uomini esperti. Forse, unico sfogo di ribellione per una clausura assolata di un sole sovrano. Il sole è un dio che prende voce scandendo l’ora e la preghiera. E si sente ovunque, in radiofonia, la piazza è in musica di litania. La sento dalla casa con tante scale: Escher l’ha disegnata! Io ci sto abitando, e non è un disegno.

Gli uomini coi baffi, gli uomini con gli occhiali, i giovani uomini, si salutano stringendosi la mano e continuano a tenersela mentre chiacchierano. Talvolta li ho visti abbracciarsi baciandosi sulle guance affettuosamente come vecchi fratelli, come fosse un breve addio, inchallah!

Gente di Marrakesh

Suonatore di guembri © Ahron de Leeuw  

I negozi colorati di odori, nella via dei mercati, creano un sentiero in cui è impossibile perdersi, perché prima o poi si arriva in piazza. Ci sono tanti uomini coi baffi e la barba che hanno la pelle rossa, come i piatti in cui mangio il tajin con pollo e verdure. Sui carretti inclinati a terra, riposano altri uomini coi baffi e il copricapo. L’asino dall’aria meditativa riempie l’affaccio di un vicolo; sembra pregare anche lui.

Disegno di Claudio Scarapazzi

Illustrazione dell’autore di questo diario di viaggio, Arthaere Scarapazzi

Sono entusiasti i commercianti in piazza, ti chiamano, ti fischiano, ti dicono italiano? Bella zio! Sono simpaticissimi, sorridono e ballano! L’uomo coi baffi versa il tè alla marocchina.

Alzando la teiera piena di acqua bollente, menta, zucchero, tè e metallo, la porta fin sopra la sua testa versando la bevanda nel bicchiere, senza versar fuori una goccia, fin quando il rumore scrocchiante si trasforma in una nuvola d’aroma e spuma, che svanisce dopo qualche attimo.

L’uomo riversa il contenuto dei bicchieri nella teiera e ripete il rituale 2/3 volte. Lo guardo incuriosito, e verso anche io il mio tè dal bicchiere alla teiera, per riversarmelo altre 2/3 volte. “E’ usanza berlo in compagnia” penso, invece lo condivido con me e basta, anche se sono tentato di offrirne al signore con la pelle rossa e senza baffi, seduto ai tavoli dei giocatori di carte che bevono il tè, giocano e schiamazzano come adolescenti.

The a Marrakesh

Tè marocchino © Simone Colombai 

Un decina di uomini. Alcuni fumano sigarette mentre giocano. Vedo i mazzi di carte. Sento puzza di gioco d’azzardo, ma non so neanche cosa è di azzardo qui.

Mi siedo ad un tavolino un po’ sporco. Un tipo con la pelle rossa, credo sia un cliente abituale, mi pulisce il tavolino con un pezzetto di carta, gli dico di non preoccuparsi, no problem!, e lui annuisce serio facendomi capire che è bene che il tavolino sia pulito.

E io apprezzo il Rispetto. Io, seduto al mio tavolo, con il turbante e i pantaloni da tuareg e infradito, osservo facendo il vago.

I due tavoli: a sinistra giocano in quattro, alla mia destra sono sette giocatori e due di contorno, di cui uno tira fuori una pipa lunga due spanne. Chissà che gioco è – penso.

Chi gioca gioca, chi non gioca versa il tè e porta la tazza di acqua di rubinetto nell’angolo di chi vince. Sì, mi trovo un po’ in mezzo, mi sento un po’ estraneo.
Il gestore coi baffi ha chiuso due serrande, la terza resta aperta. Sui tavoli ci sono le carte, non vedo i soldi. Sto più tranquillo.

Dietro il bancone in muratura i calderoni sono accesi, chissà cosa stanno cuocendo a quest’ora. Qualcuno, un paio di ragazzi, entrano, con una busta in mano da cui tirano fuori un pezzo di carne che danno al gestore.

Pago il mio tè e chiedo al gestore coi baffi se ogni sera vengono a giocare a carte. Conferma. Poi alle ventitre manda tutti a casa e chiude i battenti. Voglio prendere un tè in una bettola – ho detto prima di recarmi nel locale, e ne sono uscito indenne.

Esco nella piazza deserta, tra le strade dei mercati con le serrande abbassate. I lampioni accesi offrono una vista singolare. Vedo ciò che di giorno è animato e rumoroso, in veste notturna.

Passa qualche giovane. I netturbini raccolgono le ultime cose, qualche ragazza sola rientra. Qualche uomo e donna dai tratti europei porta le valige, entrando un po’ colpiti nei vicoli della città rossa. Dopo le ventitre comincia ad assopirsi, Marrakech.

Strade MarakeshSul pulmino in direzione mare, la terra rossa prende forma nelle case che spuntano sull’enorme pianura lungo la strada. Un tappetone verde in cui si nutrono rari bovini e qualche mulo, asini, greggi di capre.

Contadini chinati a raccogliere frutti, come formiche laboriose che sostano sulle rocce e i cumuli di sassi prendono il tè ambrato alla menta con le immancabili teiere piene di mani e di vita.

Bianche e maestose sono le montagne d’Atlante onnipresenti, un gigantesco esercito che protegge il nero continente, paradossalmente innevate, come vecchi saggi che dall’alto di quattromila e passa metri vedono il Sahara, più a est, dove per me, alla luce assolata della mia esperienza, risulta ancora un mistero raccontato, immaginato, scritto.

Montagnette di pietre biancastre segnano alcuni perimetri tra i campi verdi o rossi delle terre marocchine, gli uomini omaggiano l’uso della ruota macinando tragitti a dorso di asino e carretto, sull’asfalto, sulla terra, con l’aratro.

Lunghe dune d’asfalto imitano i movimenti dei cobra neri, che fissano immobili gli incantatori di serpenti che suonano l’incantesimo nella piazza. Eccomi ad Essaouira, bianca e azzurra, gli archi, il sole e il mercato, il vento alle porte della città soffia forte, ma dentro le mura c’e’ quiete. Tanta gente.

Una strada infinita addolcisce il mio stato d’animo, perchè se scegliamo di percorrerla tutta, potrebbe condurci ad altre nuove esperienze.


Dal diario di viaggio di Arthaere Scarapazzi, pittore, scultore e tanguero che si dedica spesso al diario di viaggio illustrato, quando è in giro per il mondo.

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