
“Carrettera Central, infanzia amazzonica” (Perù) – Intervista all’autore Massimo Brigidi
Massimo Brigidi svolge la professione di architetto nella sua Pesaro, città dove è nato nel 1967. Ha passato la prima infanzia rotolandosi tra il fogliame della selva amazzonica e giocando con cuccioli di giaguaro, nell’attesa che la Carretera Central restituisse lui i genitori al termine della giornata lavorativa. E’ nel 2015 che Massimo decide di tornare a immergersi in quel Perù amazzonico, in quei luoghi a lui familiari eppure estranei, nelle immagini ancora aggrappate in un qualche anfratto cerebrale a cui il tempo ha donato una tinta troppo slavata per essere definite ricordi. Di questa esperienza ne ha voluto fare un libro dal titolo “Carrettera Central”. E io, incuriosito e affascinato dalla lettura, ho voluto incontrarlo e porre lui alcune domande.
Massimo, nel tuo caso il desiderio di metterti in viaggio non si sposa perfettamente con la voglia di scoprire nuovi luoghi o nuove culture, piuttosto con la necessità di dare una risposta ad alcuni interrogativi circa la tua infanzia. Qual è stata la molla che ha fatto scattare il meccanismo che ti ha portato a metterti in cammino?
Più che una vera molla ci sono stati gli ingranaggi della vita che, come incastri dentellati di un orologio, hanno iniziato a muovere le lancette per un conto alla rovescia, per mettere in atto un qualche cosa che stava covando lì sotto da diverso tempo. Ho tergiversato molto prima di accorgermi che il destino aveva scritto il mio nome su un biglietto aereo per il Perù. In maniera poco poetica potrei dire che ci sono andato a calci in culo.
A Tingo Marìa riconosci e avvicini il sindaco della città. Questi mette a tua disposizione Jorge, si può dire il suo braccio destro. E’ grazie a lui e alla sua jeep che riesci a raggiungere i luoghi sperduti della tua infanzia. Quanto hanno contato in questo viaggio i rapporti umani?
Sono stati determinanti. Non penso proprio che diversamente avrei potuto raggiungere il luogo della casa di allora, né tanti altri. La città amazzonica che avevo raggiunto non era affatto turistica: l’unico volto occidentale era il mio. Quando mi sono addentrato nel grande mercato coperto mi sono veramente sentito come in un girone dantesco, un labirinto del quale non è stato facile trovare l’uscita. Tutte le esperienze fatte in giro per l’Europa che presumevo avermi forgiato come un disinvolto in ogni dove, in confronto a ciò che c’è lì, sono diventate in un lampo storie da parco avventura.
Pigna: è così che si chiama la piccola prova di fiducia di fronte alla quale ti ha messo Jorge, senza proferire parola e dopo che una certa confidenza si è andata stabilendosi tra voi.
Pigna, il vero giro di boa del viaggio. Cosa che però ho capito solo rileggendo il mio libro. Da quel momento inizio a smantellare alcune ansietà, tipo quella di essere da solo in un luogo non proprio dei più tranquilli sulla faccia della terra. La bevuta di quel succo di pigna – ananas – è stata come un fluidificante per un ingranaggio arrugginito che mi ha permesso di iniziare a muovermi con disinvoltura per spingermi in luoghi e situazioni che poi hanno svelato la mia componente amazzonica, cosa che non sospettavo di possedere ancora. Il fatto di aver bevuto il succo di pigna lungo la strada senza avere ripercussioni intestinali, di non essere stato mai colpito da alcuna zanzara o altre cose simili, mi fa pensare che devo un grazie ai miei anticorpi che proprio in quell’ambiente si sono formati.
Più o meno ricomposto il puzzle dei tuoi primi anni di vita, decidi di proseguire il viaggio alla ricerca della tribù degli Shipibo per soddisfare una tua personale curiosità. Chi sono costoro?
Gli Shipibo sono una tribù di nativi che sopravvive attorno ai grandi fiumi, fiumi che come autostrade sono ancora le uniche vie di comunicazione nella foresta pluviale. Sono chiamati i nativi “urbanizzati” perché nonostante vivano nella foresta ancora secondo i loro usi e costumi tradizionali, hanno villaggi prossimi ai centri abitati da cui ne ricavano degli scambi pressoché quotidiani. Avevo degli scatti fotografici che mi ritraevano da bambino con alcuni di loro, così mi sono spinto fino ad un villaggio a un’ora di canoa dalla città di Pucallpa per scoprire se anche lì poteva spuntare qualche cosa dal passato.
E’ qui che accetti la sfida di sottoporti a un rito importante, che decidi di mettere la tua vita nelle mani di uno sciamano. Un racconto subito seguito nel libro da un capitolo che richiama il testo di Henri Laborit, Elogio della fuga. Ti va di parlarne?
Il rito dell’Ayauascha è una cosa molto importante se preso con diligenza e consapevolezza che non si tratta di uno sballo, anche se mi rendo conto che la parola diligenza possa suonare un tantino strana alle orecchie di chi sa di cosa sto parlando. Posso solo aggiungere che solo vivendo le cose da vicino si percepiscono le differenze che permettono di distinguere le azioni stupide dalle altre.
Quando lessi Laborit ero rimasto colpito da due fatti fondamentali, il primo che lui fosse biologo e filosofo assieme, di come tenesse insieme questo binomio apparentemente contrastante, e il secondo che delineasse il concetto di fuga non come un atto di viltà, ma come l’unico atto delle specie utile alla sopravvivenza della stessa, ben oltre tutte le limitazioni culturali che l’essere umano può darsi.
Nel mio caso, reduce da una “bella pettinata” a seguito del rito sciamanico, l’applicazione di Laborit consisteva proprio nel venir via il prima possibile dall’accampamento degli Shipibo, di fare i conti con l’impossibilità di farlo; di raccogliere non le forze, ma la concentrazione per attendere il momento giusto per farlo. In quel frangente ho sicuramente segnato il mio limite fisiologico come persona, ma ancora più importante è stato fondamentale capire che anche l’attesa può esser un modo nella vita per procedere, per venirne fuori. Ho aspettato per circa venti ore immobile dentro la capanna il momento per andarmene, fino a restare immerso nel buio assoluto della notte amazzonica e nell’isolamento di un accampamento restato deserto. La mattina dopo ho iniziato la mia “fuga” verso il ritorno.
Le sette parole chiave del libro?
Carretera Central. A parte essere il titolo del libro ne è anche la parola chiave più importante, come del resto lo è stata per la mia infanzia. E’ una via interna fondamentale che collega Lima con le regioni centrali del Perù, ed è anche il motivo per il quale la mia famiglia si era trasferita lì.
Destino Accettare le cose che accadono e farne parte anche se non ci appartengono, non opporsi.
Coraggio nella paura. Svariate volte, come racconto nel libro, mi sono cacciato in situazioni difficili, talvolta in luoghi ostili. Mi sono fatto coraggio, mi sono buttato. Sì, è vero, con le ginocchia che tremavano. Ma l’ho fatto. Perché il coraggio non sta nel non avere paura, piuttosto nell’averne (e tanta) e camminare lo stesso verso quel qualcosa a cui non sai dare ancora un volto, ma che sai attenderti appena dietro l’angolo.
Agire. Troppe volte ci si perde in ragionamenti e non si dà il giusto spazio all’istinto.
Senso del Limite. Uno degli insegnamenti che ho ricevuto in Amazzonia è quello di rispettare i propri limiti, anche se il desiderio, dettato da tante componenti, sarebbe pronto a spingersi oltre.
Energia pura. E’ quella sorta di sensazione impalpabile ma assolutamente presente che la foresta ti trasmette quando ne sei avvolto, immerso assieme a tutti i suoi componenti.
Attesa. Ho scoperto che l’attesa è anch’essa una possibilità di procedere in avanti. Quell’attendere, dopo il rito sciamanico, di quasi 20 ore fermo immobile nella capanna è stato un passaggio importante, quasi di maturazione nella consapevolezza di sé.
Dove possiamo acquistare il libro?
Clicca qui per acquistare Carretera Central su Amazon
Intervista a cura di Marco Toccacieli di www.ilfederico.com